I dieci non sono stati tutti purificati? Dove sono gli altri nove?

09-10-2016 XXVIII domenica del tempo Ordinario di don Fabio Pieroni

Lc 17,11-19

Nel recarsi a Gerusalemme, Gesù passava sui confini della Samaria e della Galilea.  Come entrava in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono lontano da lui,  e alzarono la voce, dicendo: «Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!» . Vedutili, egli disse loro: «Andate a mostrarvi ai sacerdoti». E, mentre andavano, furono purificati.  Uno di loro vedendo che era purificato, tornò indietro, glorificando Dio ad alta voce;  e si gettò ai piedi di Gesù con la faccia a terra, ringraziandolo. Or questo era un Samaritano.  Gesù, rispondendo, disse: «I dieci non sono stati tutti purificati? Dove sono gli altri nove?  Non si è trovato nessuno che sia tornato per dare gloria a Dio tranne questo straniero?»  E gli disse: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato».

 

La Parola di Dio è un cibo che ci dà energia per vivere veramente e non solamente sopravvivere. Vivere è trasmettere la vita a qualcuno. Una persona che sopravvive è invece una persona che sta in crisi. Noi normalmente sopravviviamo e quindi abbiamo bisogno di una vita, ecco perché veniamo a questa mensa, a questo altare, a questa eucarestia, ma prima c’è la Parola che abbiamo ascoltato e che ora va sminuzzata perché noi ce ne alimentiamo e dopo che ce ne siamo alimentati dovremo metabolizzarla perché diventi parte della nostra mentalità, ma anche di una vitalità che entra in circolo in noi. Allora, vediamo cosa voglia dire questa Parola che sottolinea tanti particolari che sono fondamentali.

Gesù sta passando dalla Samaria diretto verso Gerusalemme; gli vengono incontro dieci lebbrosi, i quali si fermano a distanza, alzano la voce e gridano dicendo: “Abbi pietà di noi!”. Rimangono a distanza perché altrimenti avrebbero potuto contagiare gli altri.

I lebbrosi sono esclusi! La lebbra fotografa una condizione di esclusione della relazione con gli altri, ma fotografa anche una situazione di isolamento, perché una persona lebbrosa deve stare da sola. Inoltre la lebbra è una malattia della pelle che consiste nel perdere la sensibilità. Non avendo la sensibilità, le mani e piedi si deteriorano perché sbattendo contro le cose senza sentire dolore si feriscono facilmente senza rendersene conto, e le ferite si infettano, poi non avendo sensibilità si possono ustionare facilmente… Il segno del lebbroso è quindi qualcuno che è insensibile, a cui le cose non fanno più né caldo, né freddo. Questi dieci lebbrosi gridano a Gesù: abbi pietà di noi! e Gesù risponde loro: andate dai sacerdoti. I sacerdoti erano colori i quali avrebbero dovuto constatare l’avvenuta guarigione ed avrebbero dovuto certificarla perché i malati che erano guariti esibissero questo documento alla comunità per dire: noi siamo riabilitati, possiamo tornare a vivere pienamente la realtà, possiamo uscire dal nostro isolamento, non siamo più esclusi, abbiamo la possibilità di relazionarci. Quelli vanno dai sacerdoti e quando arrivano lì si accorgono di essere stati guariti. Allora uno di questi torna indietro, lodando Dio a gran voce. Va da Gesù per ringraziarlo, ma Gesù non dice che questo personaggio è particolare perché lo sta ringraziando. Dice: non si è trovato nessuno se non questo straniero che lodasse Dio?

Ecco il senso del  discorso. Vediamo cosa significa questo per noi. Che c’entriamo noi con tutto questo? Questi lebbrosi siamo noi, questi esclusi siamo noi, questi isolati siamo noi! Questa gente a cui ad un certo punto la vita non fa più né caldo né freddo siamo noi! La nostra vita è molto difficile, il lavoro le relazioni, il rapporto con tuo padre, con tuo figlio, con il tuo fidanzato, con il collega… tutto è estremamente difficile e fa sì che una persona pian piano riduca le sue relazioni, piano piano si isoli, perché gli altri sono difficili, perché gli altri ci feriscono e ci rendono impossibile la relazione. Io vorrei relazionarmi, ma le complessità, gli errori che fanno gli altri, le aspettative deluse, piano piano ci fanno scivolare in un certo realismo per cui perdiamo l’entusiasmo e nasce dentro di noi un menefreghismo, un cinismo. Piano piano uno si raffredda. Questo è il lebbroso! Allora gridiamo: “Signore, aiutami! Risolvimi questo problema con papà, risolvimi questo problema con il mio capo!”. E succede che a volte Dio ti aiuta a risolvere un problemino, e tu pensi: E vai! Abbiamo svoltato! Meno male!

Ma Gesù dice: attenzione! Questo è insufficiente!

Gesù è deluso, arrabbiato quasi, perché gli altri nove lebbrosi non hanno capito il dono che Dio gli ha fatto. Gesù dice: “E’ troppo poco che voi incassiate solamente il fatto che c’è questa piccola soluzione, questo piccolo sollievo! C’è molto di più! Non si tratta solamente di risolvere i vostri piccoli problemi, si tratta di riconoscere Dio, di farvi toccare da Dio, di entrare nella vita, di partecipare a quella vita divina che vi consenta di entrare nella complessità della vita, perché altrimenti non appena si dovesse ripresentare il problema per il quale avete chiesto aiuto, tornate allo stesso punto! Guardate che dei regali che io vi faccio voi cogliete solamente un pezzettino, dovete andare più a fondo”.

Andare più a fondo significa entrare nella vita, farsi toccare da Dio che ci dà la vita soprannaturale. Questa esperienza è entusiasmante e ci consente addirittura di poter entrare in quella vita che avevamo lasciata, perché eravamo scappati a causa della nostra fragilità. Noi non siamo vigliacchi, siamo semplicemente fragilissimi senza la vita che ci dona Dio.

Ogni celebrazione eucaristica vorrebbe che noi ci lasciassimo visitare fino in fondo da Dio, il quale non vuole solamente risolvere il problemino, ma farci entrare in questa vita. E spesso, ci dice il vangelo, in questa vita di Dio entra lo straniero. Chi è lo straniero? C’è una dinamica piuttosto strana nella vita cristiana, una proporzionalità inversa che consiste in questo: quanto io meno sto nella Chiesa,  quanto meno  ho fatto esperienza di un cammino di fede, di un’amicizia, tanto più sono entusiasmato. Quanto più io ci sto dentro, divento esperto, divento catechista, divento importante, divento prete, tanto meno riconosco la voce di Dio. E’ una cosa stranissima. Pensate per esempio alle amicizie: inizialmente sei contentissimo, poi piano piano ti abitui e pensi che sia tutto scontato, e proietti sull’altro le tue aspettative, e piano piano si spegne il piacere di vedere l’altra persona. Per questo Gesù dice: “Attenti a non mettervi della situazione di  chi diventa impermeabile all’incontro pieno con me. Non  vi fermate solamente al primo approccio”. Occorre entrare in una comunione tale che, come diceva la seconda lettura, se con lui moriamo, con lui vivremo, se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Occorre stare con la vita di Dio. Ecco perché per noi è preziosissimo venire qua, perché poi usciti da qui  la vita ci aspetta: ti aspetta il problema che hai lasciato a metà con tua madre, con tua moglie, e come fai ad entrarci dentro? Non si tratta  di avere una buona volontà, si tratta di incontrare, di essere  uniti, di cogliere misticamente attraverso le nostre intuizioni la vita stessa di Dio che è Gesù Cristo. Quindi ogni cristiano dovrebbe essere un mistico che riceve la vita, che è l’amore di Dio.

Ora io voglio concludere questa omelia rivolgendomi prima all’assemblea che oggi vive questa prima domenica di apertura della pastorale. Qui ci sono i bambini, alcune famiglie e i catechisti. Io voglio riferirmi  ad una immagine che mi è rimasta dentro anni fa! E’ l’immagine di uno sceneggiato televisivo che riporta un fatto di cronaca avvenuto molto tempo fa: c’è un terrazzo grande, con la forma ad L, dove un bambino sta giocando e la mamma sta sistemando le piante. Ad un certo punto la mamma non sente più il bimbo giocare, percorre il balcone e si accorge che il figlio sta a penzoloni aggrappato alla ringhiera. La madre prende le sue mani, e cerca di trattenerlo. Urla, grida, solo che nessuno la sente perché c’è una partita di calcio e tutti sono davanti alla televisione. La madre dice al figlio di provare a sfilarsi le scarpe perché cadendo possano attirare l’attenzione di qualcuno, ma non accade nulla. Poi finalmente qualcuno si accorge di quanto sta accadendo, salgono sulla terrazza e salvano il bambino. La mamma si accascia con le mani distrutte e finisce lo sceneggiato. Che significa questo? Che noi come parrocchia  siamo le mani della madre. La madre è il primo soccorritore di un bambino che grida. Cosa grida la gente? Che potrebbe precipitare nel non senso, nell’abisso, in una vita senza Dio, in una vita senza il senso della vita, in una vita che è tutta fatta di chiusure, di difese. Noi vorremmo trattenere questi bambini nella vita, è questo che stiamo facendo. Le mani dei catechisti sono le mani di questa madre che è la Chiesa, che sta facendo questo lavoro contro le aspettative di chi è preso dalla partita di calcio, dal Grande Fratello, dalla politica…  Questo lavoro è fondamentale, perché esiste la tua vita, la mia vita, esiste la possibilità, il pericolo di diventare un lebbroso, un disadattato, una persona sempre in fuga, una persona chiusa in se stessa, una persona che è sempre su internet perché non può entrare nella realtà vera. Ed è in questa vita vera, nella vita di Dio, che noi stiamo cercando di far entrare tutti questi figli.