Gv 15, 9-17
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».Domenica scorsa abbiamo ascoltato questo Vangelo che oggi riascoltiamo; è strano che per due domeniche consecutive si legga lo stesso, ma non è esattamente così: quello di oggi è tratto dallo stesso capitolo 15 del Vangelo di Giovanni. Stiamo leggendo i discorsi che Gesù pronuncia durante l’ultima cena: nel capitolo 13 celebra l’ultima cena, fa la lavanda dei piedi e poi nei capitoli dal 13 al 17, in cinque capitoli, Gesù parla a tutta l’assemblea dicendo che Lui è la vite e noi i tralci che hanno il “compito” di dare il superfrutto, cioè siamo stati creati per portare molto frutto. Questa è una cosa bellissima, ma la cosa importante è rimanere, e Gesù lo ripete in questo quindicesimo capitolo, nel discorso della vite e i tralci. Dice: “rimanete, rimanete, rimanete” per ben dieci volte. Malgrado ci sia una cosa bella, che è appunto l’immagine della vite, c’è una cosa brutta in questo discorso e cioè che noi non ci crediamo e quindi non restiamo attaccati alla vite. Questo succede, per esempio, con i genitori dei bambini che hanno fatto le prime comunioni, ai quali chiedo come è stata la celebrazione e loro rispondono di essersi commossi; così li invito a tornare a settembre, per il catechismo della Cresima, e la risposta è spesso negativa. Per questo Gesù ripete dieci volte: “rimanete”! Rimanere significa perseverare ed è uno stadio successivo all’”iniziare”, perché è più difficile. Quando uno inizia un cammino è contento, ha voglia di ascoltare catechesi che lo incuriosiscono, conosce Don Fabio, Don Simone, i catechisti; poi però deve perseverare, e così inizia a sentirsi stanco, a perdere l’entusiasmo per vari motivi e piano piano se ne va.
La cosa più difficile non è avere molti inizi: per esempio vado ad Assisi, a San Giovanni in Laterano, ascolto varie persone, faccio quella esperienza spirituale. Ma ad un certo punto, quando uno ha iniziato, deve perseverare, perché questo ci consente di assimilare quello che abbiamo ascoltato, di cambiare il nostro DNA, di modificare le nostre strutture più profonde, altrimenti è tutto un fuoco di paglia. Per perseverare ci vuole un combattimento: San Benedetto, che è stato uno dei primi maestri di questo comando di Gesù, di rimanere, accanto ai tre voti che fanno i religiosi (che sono povertà, castità e obbedienza), ne ha messo un quarto che si chiama “stabilitas loci” e cioè il radicarsi dentro una realtà che deve portarti per tutta la vita; per cui loro scelgono un monastero e non possono cambiare con un altro. Questo ritmo (che a un certo punto non ha più sbalzi euforici di cose straordinarie, meravigliose), esige una ferialità, una normalità, che noi tante volte con grande fatica sopportiamo, perché ci viene il sonno, ci viene la fatica. I monaci lo chiamavano il vizio della “akedìa”, o dell’accidia, o del sonnambulismo, cioè che piano piano ti addormenti.
Gesù dice: “vi dico queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”; non ce lo dice per romperci le scatole, ma perché siamo destinati a portare il nostro frutto, che è un super frutto. Tu avrai veramente un po’ di gioia quando porterai frutto… a qualcun altro. Questo è la gioia: non è avere tanti soldi, tante cose, tanti like, ma è invece proprio il contrario. Gesù dice che non si tratta solamente di insegnarci ad amare, fare del bene, è troppo poco, ma vi vuole portare ad un livello più alto dell’amore, che lui chiama l’amicizia, che è una relazione con l’altro particolarissima; noi non abbiamo tanti amici. Sarebbe interessante sapere se hai qualche amico, se ne sei capace. Non si tratta solamente di essere gentile con l’altro, fargli l’elemosina e giocare un po’ con lui. Tra moglie e marito spesso non c’è più l’amicizia ed anche tra fratelli potrebbe non esserci, perché è quell’intesa, quell’apertura, quel desiderio di condividere, che è speciale, particolare e va costruito.
Nella Bibbia, proprio nel libro del Siracide si dice: “un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro, per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore, un amico è un balsamo di vita”. Questa è la finalità che Gesù ci indica, non solamente come compito, ma come riflessione: non so se hai mai pensato che amico sei, se sei capace a tenerti degli amici, a rimanere amico di qualcun altro. È un comando, è una sottolineatura meravigliosa, importante, in cui uno investe se stesso, in cui uno dà qualità alle relazioni. Di questa amicizia si parla in mille modi, ma ci sono anche patologie in essa, in cui diventa morbosità, una voglia di una relazione totalmente esclusiva, oppure una relazione paranoica, per cui uno comincia ad attribuire all’altro delle intenzioni che l’altro assolutamente non ha, e se gli dice che forse c’è stato un malinteso, va tutto al diavolo. Ci vogliono anni per costruire un’amicizia e su questo dobbiamo investire: non è solamente una gentilezza, una cortesia, ma un frutto maturo dell’amore spirituale, cioè l’amore che viene dallo Spirito Santo. Dell’amicizia si è cantato dai grandi autori greci come Virgilio, però in Cristo questa relazione regge anche al litigio, al travaglio, all’errore, rimane in piedi, altrimenti non è un’amicizia che viene da Dio.
A me piacerebbe che questa mattina voi vi facciate delle domande e riceviate questo compito da Gesù, il quale non dice solamente di prendere coscienza che noi siamo suoi amici, che Lui ci considera tali; ma anche che io, ad un certo punto, mi devo mettere nella testa il fatto che non possa esigere solamente dagli altri, pretendere e se gli altri non sono come io immagino che debbano essere, li cancello. Questo non è amore, è un rapporto nevrastenico. Molti siamo così, quasi tutti, diciamo tutti; su questo invece dobbiamo convertirci, lasciarci curare, medicare, perché quello che si aspetta tante volte la gente da un cristiano, è avere una qualità di relazioni molto alta, molto grande e molto bella, perché l’amicizia è una cosa bella, libera, nuova, fresca, gratuita. Sono tutti elementi che non stanno in questo mondo, perché spesso le relazioni sono viziate da un utilitarismo e da un ricatto affettivo; e invece spero che oggi abbiamo sottolineato questo aspetto.
C’è un libro interessante di un certo Aelredo di Rievaulx, che parla dell’amicizia; è un mattone. Lui era seguace di San Bernardo, è della sua epoca, e sarebbe bello che riusciate a leggerlo.